10 Agosto 2025
Diversi episodi di cronaca hanno riportato recentemente all’attenzione pubblica una realtà scomoda e purtroppo nota: la presenza di manodopera sfruttata, spesso reclutata tramite reti di caporalato, in laboratori tessili irregolari attivi anche sul territorio italiano. Non si tratta di casi isolati o circoscritti a Paesi lontani, ma di storture sistemiche che attraversano trasversalmente tutta la filiera della moda – persino in quelle aree considerate simbolo del Made in Italy e del lusso.
Una lunga storia di invisibilità
Il tessile è sempre stato un settore costruito sul lavoro umano, sin dalle prime manifatture dell’Ottocento, quando bambini e donne lavoravano 12 ore al giorno. Ancora oggi, nonostante l’automazione, la fase di confezione rimane ancora largamente affidata alle mani e al tempo delle persone. Mani invisibili, spesso sfruttate, sottopagate, senza diritti. Il costo del lavoro, in media, rappresenta circa il 30% del valore di un capo d’abbigliamento.
Ma in certe filiere diventa un costo da azzerare, con ogni mezzo. La folle corsa alla riduzione dei costi ha inciso profondamente sulla manodopera, concepita solo come ‘costo da abbattere’.
Così si delocalizza in luoghi in cui è possibile sfruttare manodopera a basso costo. La delocalizzazione distrugge le filiere tessili locali in cui il lavoro è tutelato e pagato il giusto e ostacola la crescita economica e sociale delle comunità di lavoratori a basso costo. Quando delocalizzare non basta più, si cerca lo sfruttamento direttamente sotto casa: nei seminterrati, nei capannoni industriali nascosti, nei dormitori-laboratori dove lavoratori e lavoratrici – spesso migranti irregolari – vivono e cuciono, privati di ogni dignità. In alcuni casi, come testimoniano diverse inchieste, il traffico di esseri umani diventa parte stessa del modello produttivo.
Un sistema che ha un costo umano
Nel mondo si stima che oltre 36 milioni di persone lavorino in condizioni di schiavitù nel settore tessile. L’Organizzazione Mondiale del Lavoro parla di 215 milioni di bambini lavoratori, 50 milioni di donne che lavorano da casa senza alcuna protezione. E nel frattempo, l’industria tessile legale italiana perde competitività, strangolata da una concorrenza sleale alimentata da lavoro irregolare e illegalità.
Se una t-shirt costa meno di un panino, allora è qualcun altro a pagare quel prezzo
Non possiamo più far finta di non saperlo. Non basta più indignarsi: bisogna scegliere.
In Slow Fiber crediamo che il cambiamento non possa più aspettare. Servono responsabilità e coraggio a ogni livello della filiera: da chi produce, a chi vende, a chi acquista.
Scegliere di produrre nel rispetto dei diritti umani.
Scegliere la trasparenza e la tracciabilità reale.
Scegliere un nuovo paradigma, in cui il prezzo di un capo rifletta il valore del lavoro, della dignità, delle storie che porta con sé.
La proposta di Slow Fiber
Slow Fiber nasce per promuovere una filiera tessile diversa: buona, pulita, giusta, sana, durevole – e quindi anche bella. Una rete di 29 imprese italiane (dato aggiornato a settembre 2025) che credono in un altro modo di fare moda e arredo, fondato sul rispetto delle persone, dell’ambiente e del lavoro. Per noi, la giustizia sociale è parte integrante della sostenibilità. Non ci può essere bellezza vera senza dignità per le persone che contribuiscono a produrla.